Ricordi di famiglia nel Sudafrica dell’apartheid
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Ricordi di famiglia nel Sudafrica dell’apartheid

Il 1984 è passato alla storia fondamentalmente perché 36 anni prima George Orwell aveva scritto l’omonimo romanzo ed erano tutti lì a chiedersi se la trama sarebbe stata profetica o no. Forse non allora, ma oggi sì che esiste un Grande Fratello. Però c’è anche molta più democrazia digitale, che è l’altra faccia della stessa medaglia.

Ma il 1984 per me è stato un anno di svolta per ben altri motivi!

Avevo 12 anni e per la prima volta nella mia vita salivo sul più grande aereo che avessi mai visto e che mi avrebbe portato addirittura in un altro continente! Milano-Francoforte, Francoforte-Nairobi ed infine, dopo 15 ore di viaggio trascorse a smanettare con le cuffiette della filodiffusione ascoltando “All Night Long” di Lionel RitchieJohannesburg, Sudafrica!

Avevo la fortuna di accompagnare i miei genitori in un viaggio di lavoro, uno di quelle vacanze-premio che le aziende organizzano per gratificare i collaboratori, e quindi l’atmosfera era un po’ come nel film “Vacanze in America”, giusto per citare una pietra miliare della cinematografia di quell’anno. Persone da tutta Italia, buonumore, molta goliardia e gente che anziché chiamarsi per nome si appellava “Napoli”o “Milano”.

Io del Sudafrica non sapevo assolutamente niente, a parte il fatto che c’erano le miniere d’oro e i parchi naturalistici popolati di leoni e altre bestie feroci. Inoltre, i miei non mi avevano minimamente preparato al viaggio, per esempio spiegandomi che in quel paese esisteva un regime particolare, che prevedeva qualcosa chiamato apartheid. Eravamo sostanzialmente in fibrillazione per gli hotel ultra-lusso, le miniere d’oro e il safari.

La prima impressione di Johannesburg, nel tragitto dall’aeroporto all’hotel, era stata di un città moderna ma anonima, connotata principalmente da queste montagne di sabbia ai lati della strada. Montagne di sabbia ovunque, i detriti provenienti dalle viscere della terra.

Arrivati nel mega hotel, un nero altissimo in livrea e cappello a tuba aveva accolto l’italian group in discesa dal pullman. Era così nero, con i bulbi degli occhi così bianchi, che mi sembrava una statua. In vita mia non avevo mai visto un portiere d’albergo vestito in quel modo, così come non avevo mai frequentato un posto così scintillante, con gli ascensori trasparenti, divanetti e moquette ovunque.

La nostra guida locale era un romano emigrato da alcuni anni. Sapete, il tipico roscio di capelli con il baffo malandrino (un po’ Alberto Castagna, per intenderci), che sa bene come soddisfare la curiosità degli italici all’estero. Tipo: i sudafricani vivono tutti in villette con la piscina, a Cape Town c’è uno squalo bianco lungo 8 metri che però attacca solo le barche, quando andremo al Londolozi Park assaggerete scaloppine di antilope, sentirete che buone.

G1Gold2Della visita alla miniera d’oro ricordo come fosse oggi la discesa agli inferi a bordo di un ascensore rumoroso ed inquietante, tutti con il casco antinfortunistico e un impermeabilino protettivo. Mia madre era terrorizzata dalla profondità, ma poi la cosa si era ridotta ad una passeggiata in tunnel ampi e sicuri, arredati con scrivanie e carrelli a misura di turista. Poi il momento clou: la fusione di un lingotto d’oro enorme. Il metallo che usciva dalla fornace e passava dal rosso al giallo tra le esclamazioni di meraviglia dei visitatori che cercavano di calcolare il cambio oro-lira.

Devo ammettere che tra le innumerevoli novità che potevano stimolare una dodicenne come me non c’erano solo queste esperienze, ma anche la frequentazione dell’”uomo nero”.
All’inizio degli anni ’80 non era normale come oggi incontrare per le strade d’Italia gente dalla pelle scura. Il massimo dell’epoca erano i marocchini, a cui ancora ci stavamo abituando. Lì in Sudafrica c’erano i bianchi, ma c’erano soprattutto tanti tanti neri.
Durante il viaggio ricordo di aver sentito gli adulti parlare di apartheid, ma senza toni di indignazione, piuttosto come se fosse una regola ingiusta da accettare per entrare in contatto con quel paese. E’ anche vero che negli anni è diventato molto più semplice informarsi di cosa succede nel mondo e forse a quel tempo la gente non aveva ancora capito che prendere posizione contro qualcosa poteva passare dal boicottaggio turistico di una nazione.

Fatto sta che c’era questa apartheid, ma io non capivo bene cosa fosse, anche perché i neri stavano ovunque ed erano molto solleciti con noi. Al ristorante per esempio, non appena appoggiavi la forchetta nel piatto arrivavano tre camerieri neri a portartelo via. Chiedevi un bicchier d’acqua? In due con la bottiglia. C’era insomma una sovrabbondante e probabilmente inutile manovalanza nera, pronta a soddisfare tutti i bisogni di noi turisti bianchi.

Ricordo ancora quando un giorno, all’ora di pranzo, mia madre, vedendo tutti questi neri sfaccendati seduti ai bordi delle strade, chiese alla guida cosa stessero facendo. Il roscetto rispose che per la legge i neri che lavoravano in città non potevano rientrare nel ghetto per la pausa pranzo, ma erano obbligati a restare nelle vicinanze fino al termine del turno di lavoro.

toiletsE questo fu forse l’esempio più eclatante che spiegò a noi turisti, chiusi nella nostra bolla di lusso, cosa fosse l’apartheid. Non poter tornare a casa perché i bianchi al potere controllano i tuoi movimenti e decidono dove devi stare: in autobus per neri, al bagno per neri, al lavoro per neri, per strada in un angolo.

Dopo questo episodio io iniziai a provare un certo imbarazzo nei confronti dei neri che incontravo. Non capivo se la loro gentilezza fosse spontanea o frutto di un obbligo, se in realtà ci disprezzassero o magari ci prendessero in giro nella loro lingua. Un giorno vidi due cameriere ridere alle spalle di mio padre per una richiesta che lui aveva rivolto in inglese e quando gli chiesi se lo sfottessero per la pronuncia lui mi aveva risposto, come se fosse la cosa più normale del mondo: ”No, mi prendono in giro perché sono bianco”.

Quando poi andammo al Londolozi National Park, una delle esperienze più incredibili della mia vita, ci alzavamo alle quattro del mattino per salire sulle jeep guidate dai ranger afrikaneer, vi garantisco tra gli uomini più belli che avessi mai visto. Biondi con gli occhi azzurri, in divisa kaki e pantaloncini corti, armati di fucile per difenderci dalle bestie feroci, erano il sogno erotico di tutte le signore del gruppo. Sembravano il prototipo dell’uomo ariano nella terra dei selvaggi.

Su ogni jeep, insieme ai turisti e al ranger, ma accucciato sul cofano, c’era un indigeno nero, che scrutava le orme e gli escrementi lasciati dagli animali sul sentiero fangoso. Qualche buontempone dell’italian group lo aveva soprannominato simpaticamente “esca”, nel caso il famigerato leone si fosse veramente presentato.

La sera nel minuscolo villaggio africano si accendeva il fuoco per mangiare le famose scaloppine di impala e i neri si esibivano in balli tribali folcloristici accompagnati dal suono di tamburi e ululati vari. Di giorno capitava di incappare in qualche assembramento di capanne, abitato da persone dall’aria sinceramente amichevole e sorridente. C’erano bambini così belli da sembrare finti, i miei genitori da qualche parte ne conservano ancora le foto.

A ripensarci oggi il nostro viaggio in Sudafrica assomigliava un po’ a quello del film con Villaggio-Professional Wilson: un po’ di stereotipi forse inevitabili e la meraviglia dell’italiano medio che doveva ancora scoprire quella fetta di mondo. Sicuramente il Sudafrica di oggi sarà qualcosa di molto diverso, a cominciare dal fatto che fortunatamente l’apartheid non esiste più.

10741303-repubblica-del-sud-africa--intorno-al-1994-un-timbro-stampato-in-rsa-mostra-nelson-mandela-intorno-aMa nel 1984 a me di Nelson Mandela non aveva mai parlato nessuno né a casa né in quella scuola di suore che frequentavo, dove mi spiegavano che bisognava aiutare le missioni in Africa, perché laggiù c’erano bambini che morivano di fame.

Voi capite il mio stupore quando l’anno dopo, nel 1985, gli Artist United Against Apartheid portarono al successo mondiale una canzone scritta da Little Steven, dal titolo “Sun City” (qui il video d’epoca).
Il testo della canzone esprimeva fortissime critiche all’apartheid e alla politica di Ronald Regan , ma soprattutto ce l’aveva con gli artisti che avevano accettato di esibirsi nel lussuoso resort di Sun City, situato nel bantustan del Bophuthatswana, uno stato satellite del Sudafrica, dove decine di migliaia di neri erano stati costretti a rilocarsi dal governo razzista di Pretoria.

E così scoprivo che quel posto così simile ad un parco di divertimenti, proprio quello in cui me l’ero spassata, altro non era che lo scandaloso divertimentificio per occidentali citato nella canzone, mentre fuori dal mega hotel i neri vivevano praticamente internati. SunCity633828073158013604_big

Nonostante all’epoca del mio viaggio fossi solo una ragazzina senza alcuna colpa, ancora oggi quell’esperienza nel Sudafrica dell’apartheid risveglia in me sentimenti contrastanti. Eppure il fatto di aver visto, seppure fuggevolmente e da privilegiata, cosa fosse in concreto l’apartheid è un’esperienza a cui continuo ad attribuire un grande valore.

 

  1. Mimma Zizzo
    Mimma Zizzo12-16-2013

    Hai proprio ragione. Grazie per il tuo splendido racconto.

  2. francescabianca
    francescabianca10-07-2015

    E’ un post del 2013 e l’ho letto solo ora (in pausa pranzo mi leggo “il meglio” di Lucy a ritroso!). L’ho trvato un post bellissimo!

    • M di MS
      M di MS10-08-2015

      Grazie Francesca!
      Cavoli, è già del 2013…come passa il tempo!
      Spero che continuerai a seguirmi 🙂