Lost in translation – Mi sento fuori posto vol. 1
Andare al Consolato cinese di Milano è un’esperienza.
Che ci sei arrivata lo capisci perché ci sono i militari a fare la guardia e perché fuori sono appesi i cartelli degli oppositori politici. Roba che in Cina se ti beccano a leggerli ti sbattono in cella per un mese, invece qui non gli interessa niente a nessuno.
Quando entri nell’androne del Consolato passi dalla porta di sicurezza, che è spalancata, non sorvegliata e sporca. Nell’ingresso staziona un venditore ambulante di tabloid cinesi che ferma tutti quelli che hanno gli occhi a mandorla. A me invece dice: ”Qui nô vittô” (traduz. “Qui non si fa il visto”). Tiro dritto e scelgo uno sportello a caso, perché non c’è una scritta in italiano e io non capisco niente.
Faccio la coda in mezzo a venti cinesi, li sovrasto almeno di una testa, fa un caldo tremendo. Non stanno zitti un momento, continuano ad andare avanti e indietro. A me sembra di stare in una provincia remota del Guangdong. O di essere circondata da una nuvola di mosquitos.
Quando arriva il mio turno la signorina per fortuna parla italiano e mi spiega che devo fare le fotocopie dei documenti nel negozio a fianco del Consolato e poi tornare.
Prima compilo un modulo in cinese scarsamente sottotitolato.
Però lo spazio nei campi del modulo non c’è perché hanno pensato solo agli ideogrammi. Mi adeguo e stringo un po’ i caratteri.
Il negozio a fianco è un ufficio tristissimo e disadorno affollato all’inverosimile. Subito conto quanti impiegati ci lavorano: sono 5 in 10 metri quadri. Una signora cinese mi fa ottocento fotocopie con un’efficienza degna di Robocop senza mai guardarmi in faccia. In fondo avere a che fare con i cinesi non è così male, ti risparmia un sacco di convenevoli inutili. Mentre aspetto mi devo pure spostare perché nei 30 cm quadri residui hanno allestito uno spazio per fare le fototessere. Credo che il mio gomito sia venuto nella foto.
Mi sento comunque un pesce fuor d’acqua, in ogni caso all’estero, e invece sono a 200 metri dalla Metro 3.
A questo punto entrano due fidanzatini orientali che si bisbigliano nell’orecchio, in italiano: “Parla tu, dai che mi vergogno”. Lui le mostra il famoso modulo e le chiede: ”Cosa c’è scritto qui?” “Milano.” “Eh, troppo facile. Milano lo sanno leggere tutti!”. E io come se incontrassi un italiano su Marte: “Ah, ma voi non parlate cinese?” Eh, sì, esistono anche seconde generazioni che vanno a scuola e non parlano la lingua dei genitori.
Passano i giorni e torno per il ritiro dei documenti. La solita massa di gente che si sposta fuori e dentro il Consolato.
Vado ad un altro sportello, dove un signore mi chiede “con lo sguardo” la ricevuta, scritta ovviamente solo in cinese. Non trova i documenti e io inizio a sudare: se scoppia un problema mi capiranno? Come ci si comporta con i cinesi? Devo essere inflessibile o malleabile?
Alla fine li trova e faccio per pagare. Mi fa no con la testa. Che sia muto? Prende un modulo e con la penna fa un cerchio intorno all’indirizzo di un bar. Si paga solo lì.
Sbuffo e vado in questo bar, gestito chiaramente da cinesi. Avete presente l’ultima scena de “Il Cacciatore”, quando tutti urlano come ossessi con in mano pacchi di banconote stropicciate per la scommessa finale? Più o meno così, fronti madide di sudore comprese. Non accettano carte di credito, bancomat o assegni. Vogliono vedere i soldi. Molto cinese, questo.
Imbufalita per l’assurda perdita di tempo, parto alla ricerca di una banca e prelevo i contanti. Siccome sono tanti soldi li nascondo nei jeans. Arrivo nel bar e faccio come tutti gli altri: agito le banconote stropicciate e liquido la pratica in tempo record.
Torno al Consolato, ritiro il tutto e chiedo la fattura per la società. Il muto ovviamente tace. Dico: ”Invoice”. Allora con il dito mi indica di andare dalla collega poliglotta.
Affronto smadonnando una nuova coda. Mi sento a Pechino in coda al semaforo nell’ora di punta.
Alfine giungo. “Noi siamo un Consolato , non facciamo fattule.”
Bah. Mentre mi allontano perplessa pensando al commercialista, ritrovo lo smog di Piazzale Lodi, l’Ipercoop, i vuccumprà.
E mi rilasso: sono tornata in Italia.
To be continued…
Ho appena girato il tuo post ad una mia ex studentessa, nonché amica, cinese. Attendo i suoi commenti, anche se sono abbastanza sicura che si farà quattro risate e confermerà il tuo racconto!
Oddio, speriamo che non si offenda!
Davvero un bel racconto!
Io lo farei leggere a certi insegnanti incapaci di immaginare che un bambino di 8/10 possa essere un attimino stordito per essere piombato in una scuola italiana da un remoto villaggio della Cina, dell’India o del Marocco…
Anzi manderei loro al consolato ^_^
ops *8/10 anni*
Osservazione acuta.
Ommamma.. mi scompiscio per il pagamento. Comunque anche da noi c’è qualcuno che non scherza.. Come quando per pagare il conto dell’hotel siamo dovuti andare in un negozio di scarpe. Però almeno l’ la carta di credito l’hanno accettata.
E dove sarebbe questo???
Che incubo!! Mi sono messa a sudare solo leggendo!!