La vita bella
Ieri a Milano è successo un evento di cronaca che mi ha fatto aprire un cassetto della memoria chiuso da tanto tempo.
Il mio asilo era una scuola comunale modello per gli anni ’70, la Casa del Sole al Parco Trotter, nella oggi famigerata Via Padova a Milano. Dico famigerata perché si tratta di una strada lunghissima tanto da toccare la periferia, da sempre popolata dalle tipiche case di ringhiera lombarde. Ma non quelle glamour del centro, bensì quelle un po’ fatiscenti in cui oggi abitano in prevalenza extracomunitari.
Ai miei tempi ci abitavano i milanesoni e i “terroni”, come simpaticamente li definiva mia nonna, una brava donna – diciamo così – espressione culturale del suo tempo. La nonna, che io adoravo e ancora oggi è il ricordo più dolce della mia infanzia, parlava solo in dialetto, indossava scamiciati e girava in ciabatte. La ricordo sempre intenta a scopare casa e ballatoio e a riempire il frigo. Per la nonna infatti amare era dare da mangiare. Oggi pediatri e psicologi ci dicono che dobbiamo stare a dieta, ma a quei tempi il ricordo della guerra era ancora vivo e quindi avere del cibo in casa dava l’idea di non avere più alcun problema nella vita. Inutile dire che la dieta della nonna mi aveva causato un certo sovrappeso.
All’uscita dall’asilo veniva a prendermi il nonno, un signore burbero dai modi ruvidi, che mi teneva d’occhio pedalando la bicicletta in ferro più pesante del mondo. Mio nonno nella vita aveva fatto un po’ di tutto, ma aveva chiuso la “carriera” con una rivendita di carbone (nelle case di ringhiera non c’era il riscaldamento e bisognava avere la stufa), che si trovava proprio accanto al portone di casa. Durante le vacanze estive mi è accaduto spesso di trascorrere i pomeriggi in quel negozio, affacciata alla vetrina a guardare le persone di passaggio. Si fermavano varie amiche di mia nonna: la Sciura Teresina, la Sciura Bambina, la Sciura Regina…Naturalmente avevano tutte la permanente con il cachet azzurrino, la borsa della spesa in plastica a righe (oggi la chiameremmo “shopper”) e le immancabili ciabatte, che dovevano essere proprio comode.
Accompagnavo la nonna a fare la spesa dal pollivendolo a comprare gli “alet de pulaster”, cibo da gourmet, oppure dalla panettiera che aveva la mano di legno e indossava sempre un guanto nero (immaginate il fascino su me bambina). Frequentavo il bar sotto casa, principale centro di aggregazione dell’isolato, primo posto in cui mia nonna aveva annunciato la mia nascita urlando “L’é nasüda, l’é nasüda!”, nonché bisca clandestina notturna.
Il portinaio della casa di mia nonna era un signore di Napoli, che viveva in una specie di basso milanese, affacciato sul cortile. Giocavo con sua figlia, che un giorno mi ha detto che il papà era stato arrestato. Mia nonna aveva scosso la testa pronunciando il solito “terùn”. Io non capivo molto e non mi facevo domande. Io lì stavo bene e non mi accorgevo né della povertà delle case, che avevano il bagno sul ballatoio, né dello status degli abitanti, nonni compresi. Erano persone socievoli, tutti volevano bene a noi bambini. Al pomeriggio quando non sapevo cosa fare andavo a bussare alle porte delle amiche di mia nonna e chiedevo gli zuccherini. Le signore erano sempre tutte contente di vedermi e mi facevano tanti complimenti. Oggi pensate soltanto all’idea di mandare vostro figlio a suonare i campanelli in giro, senza un adulto.
In inverno stavamo tutti in cucina, che era l’unica stanza riscaldata da una grande stufa. Io mi divertivo a guardare la fiammella da un piccolo finestrino e mi era vietato toccare. Il nonno sopra la stufa scaldava il suo pane. Poi a mezzogiorno tutti a tavola, in silenzio, ad ascoltare il Gazzettino Padano alla radio e guai se aprivo bocca. Se il nonno doveva fare il bagno si tirava fuori un grande “mastellone”, in pratica un catino. Le abluzioni avvenivano in salotto e io restavo temporaneamente esiliata fuori di casa. Questa cosa mi faceva molto ridere.
Dai nonni stavo così bene che a volte la sera non volevo tornare a casa mia e allora dormivo sul divano letto in vera plastica, per altro prestigiosamente situato accanto ad un lavello di servizio, la prima cosa che si vedeva entrando in casa.
La cosa paradossale è che con i miei genitori abitavo in un condominio moderno, in un bell’appartamento pieno di tappeti, mobili in stile, quadri e conducevo una vita completamente diversa da quella della casa di ringhiera. Grazie al lavoro dei miei genitori ho frequentato ambienti e persone molto signorili, fatto grandi viaggi fin da piccola. Oggi più che mai sono convinta che la schizofrenia della mia educazione mi abbia dato tantissimo: la capacità di relazionarmi con chiunque e una grande spontaneità, un tratto del carattere che apprezzo molto negli altri.
La vicina di casa dei miei nonni era una sarta di abiti da sposa, che per ironia della sorte non si era mai sposata e viveva con la mamma. Si chiamava Fernanda. Mi voleva bene e mi insegnava l’uncinetto e la maglia, mi mostrava i cartamodelli, il gessetto, gli spilli, le imbastiture. Mi raccontava i grandi romanzi d’amore, tipo “Via col Vento”. Stavamo sedute sul ballatoio, io su uno sgabellino, innaffiavamo i suoi fiori, spiavamo i dirimpettai (d’estate la ringhiera è un luogo pubblico), mangiavamo il gelato.
Certe volte assistevo alle prove abito delle sue clienti. La mia preferita era una signora sui cinquanta che assomigliava a Nicoletta Orsomando. Era gentile e mi sorrideva sempre. Una sera d’inverno entro e lei mi prende le manine. Dice che sono fredde e me le vuole scaldare. Allora inizia a soffiarci dentro. Chiede: ”Ma tu abiti qui?” “No” – dice subito la Fernanda. “Lei abita in una bella casa, con i suoi genitori. Qui stanno i nonni.”. Probabilmente dovevo aver fatto un po’ tenerezza a quella signora, dovevo esserle sembrata un po’ bambina povera. Da allora venivo sempre a vedere le sue prove abiti.
Un giorno non è venuta più.
Allora la Fernanda mi ha detto che mentre andava in bicicletta la signora era stata tamponata da un’auto e non ce l’aveva fatta.
Si chiude il cerchio. Ecco perché questo fatto di cronaca, che vede protagonista una persona che non conosco ma ha il bel sorriso della signora gentile, mi ha fatto ricordare questo incontro della mia infanzia e la vita serena della casa di ringhiera. Naturalmente spero che l’esito dell’incidente sia diverso!
Scrivo queste cose un po’ per me, che sono una babbiona sentimentale, e forse un po’ per i miei figli, che fanno una vita così diversa, senza nonni in ciabatte e ballatoi da esplorare.
Sono memorie preziose e importanti. Grazie!
Spero che interessino ancora a qualcuno…
Leggere di tua nonna mi ha fatto ricordare la mia, mancata ormai quasi trenta anni fa. Secondo me erano gemelle separate alla nascita… Oppure tutte le nonne una volta erano così.
Che nostalgia.
Sì, quelle milanesi erano tutte così 🙂
Grazie per avermi fatta riflettere su due aspetti del mio carattere che pensavo innati: la spontaneità e la capacità di rapportarmi con tutti. Anche io avevo una coppia di nonni che viveva come i tuoi e anche io adoravo stare da loro, la serenità e la semplicità che respiravo mentre mia nonna cuciva e mio nonno aggiustava gli oggetti mi riempie ancora il cuore!
Grazie per avermelo fatto ricordare.
I nonni sono IMPORTANTI!
sai una cosa? io sono del sud e la tipica vita dei terroni tra campagna e paese pittoresco trita e ritrita, in film, libri e ricordi fa parte della mia memoria. Per la prima volta invece leggo, com’era la vita a milano, da sempre simbolo di ricchezza e benessere, che mentre mio nonno zappava la terra il tuo vendeva carbone e mi manca questo, nel senso che , forse è solo una mia mancanza ma su milano io conosco solo l’industria, lo sviluppo il lavoro il benestare e invece leggo qui anche l’altra faccia, quella propedeutica all’attuale e mi ha fatto tantissima tenerezza e mi piacerebbe se ne raccontasse di più. mi è sembrato di leggere di un altro mondo invece che dell’italia. Gran bel post.
Il tuo punto di vista mi interessa molto, per gli stessi motivi che hai citato tu. Sì, a Milano c’era il lavoro ma non è che tutti fossero ricchi. Però c’era una cosa: i miei nonni erano umili ma hanno sempre avuto modo di darsi da fare, l’opportunità per chi la voleva cogliere c’era. Non era così importante nascere ricchi o poveri se avevi voglia di darti da fare. La Milano di oggi non offre più tutte queste possibilità e anche la mentalità media è cambiata. Consideriamo necessarie molte più cose, ci serve più denaro per vivere. Sotto questo punto di vista i miei nonni erano persone che si accontentavano, però ai loro tempi era anche più facile accontenatrsi.
Il profumo dei ricordi,la semplicità,l’amore ed i colori.Purtroppo siamo lontani dalla Milano dei giorni nostri che si riempe la bocca di business wifi ed Expo… E cmq per un motivo o per l’altro personalmente credo che il cibo sia veicolo d’amore!Erica
Sì, molto lontani. Amo la modernità ma amo anche le vecchie buone cose. Si possono conciliare?
Credo sia difficile,ma non impossibile!ed il tuo post è un grande esempio di amore e Sicuramente i nostri figli troveranno il gusto del passato anche nei propri ricordi.Erica
è un post bellissimo, davvero…. ti ringrazio…
Post dolcissimo.
Bel post. Milano una volta era proprio così. Secondo me i bambini sono molto colpiti dai mestieri degli adulti (o almeno lo eravamo noi): magari fra 30-40 anni i nostri bambini scriveranno post del genere parlando di noi, dei nostri lavori, di com’è MIlano oggi. è vero però che questa città offre molte meno opportunità di una volta.
@tutti: Ma sapete che nei suoi disegni Fagio mi ritrae sempre al computer? E mi dice infatti che sto lavorando al computer, Certo, non è che poi ai suoi figli avrà da raccontare di chissà quale professione affascinante…
Che bei ricordi! anche per mia nonna prendersi cura era sinonimo di mangiare e ancora adesso, pur vivendo da sola, ha il frigo e il freezer pieno di cibo! Penso che potrebbe sfamarci tutti per una settimana!
Ho anche io ricordi sul balcone..quando con mia cugina anaffiavamo i fiori con l’innaffiatoio….e mangiavamo dei ghiaccioli di pomodoro fatti nelle formine del ghiaccio rotonde nelle quali mia nonna infilava gli stuzzicadenti!
Ma ci credi se ti dico che quando anni dopo andavo a trovare la nonna lei svuotava letteralmente tutto il frigo per farmi vedere che potevo fermarmi a mangiare a casa sua? Era il suo modo per dirmi ti voglio bene, stai qui con me.
Ci ho ritrovato tante cose delle mie nonne, quella terrona di paese e quella polacca di città. Per noi il cerchio si è chiuso quando mia madre ha trovato casa a Cracovia nella casa in cui è nata, non ha la ringhiera solo perché lì fa troppo freddo, ma il blocco dei gabinetti tutti in corridoio ce l’ ha anche lei, è lo stesso tipo di casa popolare.
E anche la migliore amica di mia nonna a Ofena era sarta e quanti pomeriggi ho passato a inseguire gli spilli con la calamita sul panno del suo tavolo da lavoro.
Bisogna raccontarle queste cose, per noi e per i nostri figli, perché specialmente chi ha la fortuna di rimanere legato ai luoghi dell’ infanzia dei propri genitori e nonni sa come sono cambiati nel tempo e anche questa è una testimonianza preziosa. Grazie.
Sì. Mi piacerebbe essere coinvolta da qualche associazione di Via Padova per raccontare ai bambini come era la città una volta.
Bellissimo post. Bellissimi ricordi.
Mi è partito il commento prima che finissi di scrivere il nome…
Cara MdiMS… questo post, non so perché, mi ha fatto venire in mente i libri di Sveva Casati Modignani, non so perché, da un lato la milano di una volta, dall’altro una scrittura scorrevole, che non stanca chi legge, che non annoia, che ti fa venire voglia di leggere il seguito… brava cara V., ora non ti rimane che raccogliere i ricordi in un quaderno e pubblicarlo per tutti coloro che non hanno conosciuto quella parte di milano bella da morire… e chiudo dicendoti che condivido il fatto che i nostri figli, “topi d’appartamento”, da un lato sono fortunati perché hanno agi che danno per scontati ma che non lo sono, perché hanno opportunità che non è detto che sapranno vedere e cogliere, ma dall’altro si perdono qualcosa… e per questa ragione le vacanze estive dovrebbero poter offrire loro l’opportunità di sperimentare una vita alternativa, non necessariamente rurale, soltanto stimoli diversi… non c’è bisogno di andare a vivere in fattoria o fare un viaggio nell’India più profonda… In estate fuggo dalla città con Alice per ritrovare ciò che io avevo fuori dalla porta di casa… tu avevi negozio e ringhiera io campi e aie invase di mais a essiccare, su cui andavamo a piedi nudi! effetto tipo aghi … eppure mi divertivo un mondo, come mi divertivo a seguire i miei nonni in mezzo alle pannocchie alte il doppio di me all’epoca, o andare per soffitte a cercare i micini appena nati zeppi di pulci che non vedevano l’ora di assaltare le nostre gambe… e nessuno si scandalizzava di più di tanto, tanto poi arrivava mia nonna con panno e alcool a estirpare l’ospite indesiderato:) eccetera eccetera ci sarebbe tanto da scrivere… fallo p.f.
Bacioni, mo
Non vorrei dire una stupidata, ma sai che Sveva Casati abita proprio in una villetta di Via Padova?! L’ho letto in un’intervista.
Confermo l’informazione,intervista pubblicata sul corriere abita in una villetta del ‘900 che affaccia su una parallela di via Padova.Ciao Erica
hai capito, Monica? Ci avevi visto giusto!
Grazie ad Erica per la segnalazione.
… allora.. rifletti cara, rifletti…
Grazie del bellissimo racconto. Davvero i bambini oggi vivono più chiusi dentro casa, o con tempi e impegni programmati che lasciano poco spazio per la vita di ‘cortile’. E poi sono cambiati i tempi.
Anch’io ho ricordi più rurali, quando la periferia della città era ancora campagna. Di sera d’estate partivo in bicicletta e giocavo a nascondino in mezzo ai campi di mais finchè non diventava buio e solo allora noi bambini rientravamo in casa.
Oggi non permetterei mai ai miei figli di fare qualcosa del genere, non mi piace l’idea di perderli di vista e non sapere esattamente dove sono in un ambiente che non sia ‘sotto controllo’.
Ma per me i ricordi di quelle estati sono fra le cose più meravigliose della mia vita.
🙂